25 APRILE nei ricordi di chi c?era
25 APRILE nei ricordi di chi c’era

Visto che siamo sempre in meno quelli che possono dire: “io c'ero” ci sia permesso far riemergere qualche testimonianza personale.

In quel periodo, come del resto quasi in tutto il tempo della guerra, mi trovavo a Tirano in quel fine inverno del 1945. Non più nel faticoso lavoro dell’albergo, ma occupata in un piacevolissimo impiego, quello di  bambinaia di due bimbi con l’unico impegno di portarli a fare piacevoli discese, con lo slittino, sulla strada di Baruffini.

Quella primavera a Tirano si era risvegliata in pieno subbuglio con previsioni catastrofiche. 

La diga di Cancano era minata e la popolazione allertata sul pericolo che venisse fatta saltare da un momento all’altro. La lotta fra i partigiani dall’alto del Mortirolo, dove da voci gonfiate pareva che avessero in mano la situazione, non solo per il numero, ma dalla loro parte, oltre alle armi, c’erano a disposizione massi che facevano rotolare su chi osava salire e da voci che recepivo in famiglia, sia tedeschi che fascisti, non volevano più affrontare quella strana lotta. C’era poi Pippo che, con il suo minuscolo aereo, sorvolava i cieli della Valtellina. Da principio pareva persino divertire con il lancio dei suoi biglietti , ma dopo il mitragliamento del treno Sondrio - Tirano, anche con la morte della Prof. di Tirano e la bomba sul garage della Perego, le cose si erano fatte più serie di quanto si pensava. 

Fu così che un bel giorno, la signora dove ero occupata mi disse testualmente: “Stanno succedendo cose importanti anche qui a Tirano che non si sa come andranno a finire,  è meglio che torni all’Aprica, con i tuoi”.

Così, quel 25 aprile, giorno più giorno meno, ero in paese dopo aver fatto la strada a piedi con una sosta sulla Valmana dove c’era una postazione tedesca (che varrebbe la pena raccontare).

Intanto ovunque, all’Aprica, a Tirano ma non solo, la situazione stava precipitando fino a quando si sentì la voce aleggiare festosa che diceva "la guerra è finita!".

Fu come svegliarsi da un brutto sogno che sembrava dovesse durare in eterno.

Da noi all’Aprica, ci fu però uno stop alla improvvisa gioia. Non potemmo suonare le campane a festa come in tutti gli altri paesi, perlomeno nella nostra Parrocchia di St. Maria. 

La mia testimonianza è vera, in quanto fui protagonista (in un certo senso). Infatti, avendo la mia famiglia il compito di sagrestani, già ero sulla porta della chiesa diretta al campanile per suonare le campane, allora ancora tirate con la corda, quando mio fratello maggiore, impegnato nella lotta del momento, mi fermò dicendo: “No, non suonare; per noi la guerra non è ancora finita”.

Cosa era successo? Dalla bresciana, alle porte d’Aprica, un’intera armata di tedeschi chiedeva di transitare per l’Aprica diretta a Tirano, al confine.   I Partigiani, che   avevano in mano la situazione, non dettero il permesso, sui due piedi. La situazione la gestì Caraba, il partigiano originario d’Aprica, che aveva incarichi importanti sul Mortirolo. La decisione del permesso o no venne rimandata al giorno appresso (e come avvenne, me la racconterà in seguito lo stesso Caramba).

Certo quella notte non dormirono sonni tranquilli quelli d’Aprica, nonostante la bella notizia della fine della guerra (io stessa non detti segno di coraggio in quanto andai, sola sola a dormire, per modo di dire, in una stalla, fuori paese). 

I tedeschi potevano anche ignorare le pretese di dialogo dei partigiani e fare un macello degli abitanti, partigiani compresi e raggiungere il confine.

 Ma il giorno appresso non mancarono l’appuntamento fissato alle porte d’Aprica, sulla statale proveniente da Corteno. 

(e come avvenne, me la racconterà in seguito lo stesso Caramba).

Quel giorno, all’ora fissata, Caramba con un gruppo dei suoi attendeva in piedi sul parapetto e il tedesco, scortato pure da un gruppo di suoi uomini, arrivò puntuale all’ora fissata . Il tedesco  in un primo momento si rifiutò di parlare con Caramba, pretendendo di trattare solo con un delegato di Stato maggiore. A quel punto, con gesto deciso, il partigiano levò il cappello e da sotto estrasse il documento in cui era delegato a trattare. 

La risposta comunque era negativa. Il permesso di attraversare l’Aprica non era concesso  e l’armata tedesca dovette fare dietro front e cercarsi un’altra via per oltrepassare il confine.

Chiusa questa parentesi anche all’Aprica , con il suono o no delle campane, la Liberazione venne festeggiata in tanti modi.

 

 


Data: 25/04/2011
 
03/05/2011, 08:13
La delusione, le donne, le rapate...

Eravamo in piena euforia. Il 25 aprile era passato da pochi giorni e Tirano, come del resto tutti i paesi della Valtellina e non solo, si stavano dando alla pazza gioia. Le feste si susseguivano a livello di paese, di provincia e si estendevano fino a Milano. Le camionette cariche di giovani che si davano l’aria di partigiani (anche se non lo erano) con divise e il fazzoletto al collo tricolore, scendevano nelle nostre contrade a chiedere alle nostre mamme di lasciarci andare a festeggiare con loro, ma evidentemente nessuna o quasi ci andava.

 

Ma la vita continuava comunque e io, passato il momento di euforia, ritornai a Tirano per ristabilire i rapporti di lavoro. Presi gli accordi, mi diressi sulla strada del ritorno. A Tirano non si va’ senza passare a far visita alla Madonna e presi quella direzione. Tirano non era certo rimasta indietro in fatto di festeggiamenti. Infatti risalendo l’argine sinistro per attraversare il ponte, sentivo il vocio della piazza piena e in festa. Già giunta nei pressi del ponte vedevo transitare camionette. A fianco dell’autista, naturalmente giovane, una bella ragazza e sul sedile dietro ancora un’altra ragazza. Naturalmente pensavo che ambedue avessero il posto di rappresentanza, mentre quella dietro era la vittima ..

Avvicinandomi alla piazza e sentendo quel festoso vociferare, ero convinta che ci fosse un personaggio politico ad animare l’incontro. Ero molto curiosa di sapere chi fosse fra quelli che avevo sentito nominare e già pregustavo il discorso che avrebbe fatto. A fatica riuscii a farmi strada in mezzo alla folla stipata. Era però tenuto sgombro lo spazio per il transito delle camionette.

A ogni passaggio di queste, la folla si animava al massimo e io pensavo che fossero voci di giubilo per la vittoria riportata.

 

Le cose cambiarono quando sul balconcino che c’era sulla facciata della ex caserma degli alpini dove sventolava pure la bandiera tricolore, portarono una comunissima sedia. Ma come, di solito i discorsi al balcone si fanno in piedi o comunque all’oratore non si da una sedia del genere, pensavo.

Ma, la sorpresa:  al posto del personaggio introducevano una ragazzi, o comunque una donna, la facevano sedere e a quel punto il tono della folla raggiungeva il massimo, mentre qualcuno armeggiava attorno a quella malcapitata.. Mi rivolsi alla persona vicina chiedendo cosa stava succedendo: “Le stanno rapando”. Mi rispose. Che delusione! M’avessero detto che gli angeli del cielo erano caduti sulla terra, forse non avrei provato una tale delusione. Forse avevo un concetto troppo elevato dei partigiani (e quasi sicuramente non erano stati loro a decidere quell’infamia) e quell’azione proprio non avrei voluto vederla. C’era bisogno di gettare quel fango sulla gloria conquistata? Chi aveva diritto a giudicare e a fare una cosa del genere? E non c’era nemmeno il Cristo del Vangelo a dire: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra (in quel caso, usi il rasoio).

Ma da dove usciva quella marmaglia? Non erano i tiranesi che conoscevo bene. Gente di un certo tenore sociale, istruita, benestante, di buone famiglie. Non potevo crederci.

Così delusa, mi allontanai e a pochi passi vidi un  recinto con dentro dei ragazzi seduti per terra. Avevano l’aria spaesata. Potevano avere poco più della mia età  e parevano lì nell’attesa della mamma. Erano fascisti prigionieri. 

 

Continuando poi sul viale, in direzione Madonna, mi trovai di fronte a un altro recinto, con ragazzi della stessa età. Sicuramente ancora ex fascisti. Ricordo una donna che buttava dentro pezzi di pane che loro raccoglievano come cani affamati. Quello che io non potevo fare perché non avevo né soldi né pane.

Ma quella era la pace? la gloria? la fine della guerra? E ritornai a casa molto, ma molta delusa per quell’incredibile e imprevedibile effetto della pace.

Luisa Moraschinelli


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11/11/2010

28/04/2011, 15:42
Verso l’Aprica con sosta alla postazione tedesca

 

A Tirano dove lavoravo in quei giorni di fine guerra, la situazione si faceva sempre più minacciosa e allora misi in atto il consiglio del mio datore di lavoro che aveva detto: “Stanno succedendo cose gravi che non si sa come andrà a finire, è meglio che vai a casa dai tuoi”.

Senza bagagli ingombranti in quanto, a quei tempi, disponevi di  quello che avevi indosso e poco più. M’incamminai lungo l’argine sinistro diretta all’Aprica. Naturalmente a piedi. Soldi in tasca non ne avevamo mai. Le 100 lire di stipendio al mese andavano direttamente in famiglia, per sfamare quelli che venivano dietro. Ma non era un problema. 

Allora non c’era traffico sulla strada. L’unica persona che incontrai, già ben lontana dall’abitato, fu un personaggio strano. Non certo un contadino del posto, ma ben vestito, con un soprabito, una borsa di pelle sotto il braccio e l’aria preoccupata di uomo importante. Mi stupì comunque che non avesse nemmeno la bicicletta. Ma visto la situazione io lo giudicai un personaggio del momento in missione a far da tramite fra i partigiani, sempre alla macchia, e uomini importanti che gestivano la situazione a Tirano.

Naturalmente questo era frutto della mia immaginazione.

Di certo lui aveva altri pensieri per la testa e non mi degnò nemmeno di uno sguardo. 

Continuando per la mia strada, oltrepassai Stazzona senza incontrare anima viva e su attraverso le scorciatoie  fino allo “stradone” e poi avanti incurante della pioggia che cadeva.

Arrivata al Belvedere notai che il ristorante era aperto, ma non  avevo accesso sia per mancanza di soldi che per il fatto che erano ambienti per "sciori" e tirai dritto. Giunta in zona Valmana, dove i partigiani qualche anno prima avevano fatto saltare il ponte poi ricostruito provvisorio dai tedeschi, trovai, ma senza sorpresa, la postazione tedesca. 

Tre, quattro uomini. Disponevano di una piccola baracca di legno. Mi fermai  e salutai, come sapevo fare e loro gentilmente mi fecero segno di entrare con il loro vedendomi bagnata fradicia, con il loro linguaggio mi dissero: kom, kom ina. (vieni, vieni dentro) e mi invitarono a mettermi vicino a una minuscola stuffa di ghisa, accesa.

 Veramente in un primo momento ho avuto paura ricordando i racconti dei nostri padri che dicevano che in guerra (la I. guerra mondiale) prendevano le ragazzine e ne abusavano, ma dovetti vergognarmi subito di quei pensieri perché, sul volto di quegli uomini, che si aggiravano fra dentro e fuori la baracca, leggevo la paura della morte.

Infatti ero al corrente della loro situazione. Io allora non leggevo i giornali, ma ero sempre aggiornata sulla situazione della guerra in quanto sentivo la radio che c’era in casa, per quanto succedeva al fronte, ma aggiornata anche sulla situazione locale in quanto in casa, seguivo i discorse che si facevano in merito. 

Considerato che grosso modo mi ero asciuga a sufficienza, ringraziando, uscii riprendendo il mio cammino.

Non avevo sbagliato a vedere la morte su quei volti.

Infatti il giorno appresso stavo con la mamma alla finestra a godere il primo sole, quando la vidi a un certo punto mettersi le mani nei capelli e con un grido dire: “I uà propi  a cupai” (li vanno a ammazzare). E calde lacrime le scesero dal volto, nonostante si trattasse di nemici. 

Cosa era successo? Sullo stradone di fronte, come un razzo era sceso uno dei partigiani che conoscevamo. Era in bicicletta e aveva il viso mascherato di nero. La mia impressione del giorno prima: all’incontro con quegli uomini, avevo visto giusto. Il mio sospetto era fondato come lo fu quello della mamma.

Passò meno di un ora che, sempre stando alla finestra, vedemmo risalire un carro trainato dal cavallo e con uomini al seguito. Era evidente che sul carro, sotto la coperta, c’era uno o due di qui tedeschi uccisi.

A parte il fatto che fossero amici o nemici, a me è rimasto impresso il ricordo di quegli uomini che alla vigilia della morte avevano fatto un’opera buona verso una ragazza che non era dei loro.

Qualche anno fa, in occasione dell’uscita del mio libro “Ricordi di guerra”, in una intervista alla RSI mi è stato chiesto quali impressioni mi erano rimaste della guerra. La risposta spontanea è stata quella dell’umanità della nostra gente, anche ricordando le lacrime di mia madre per quegli uomini. 

Ho potuto così affermare che la nostra gente, in guerra, ha dimostrato pietà: per la morte di partigiani, per quella di fascisti, ma anche per quella di tedeschi: l’UOMO, al disopra di tutto, a prescindere da ceto e nazionalità.

 

Luisa Moraschinelli


Autore dal
11/11/2010

27/04/2011, 08:19
La bomba di Pippo sulla Perego a Tirano

Era nell’aria che la guerra stesse per finire in quella primavera del 1945, ma il fronte sembrava essersi spostato da noi e Tirano, dove mi trovavo per lavoro, viveva un’atmosfera calda.

Gli ebrei che risalivano dalle città per trovare rifugio in Svizzera (non i nostri d’Aprica che ormai erano al sicuro), i milanesi che arrivavano a Tirano in fuga dai bombardamenti, i tedeschi che lottavano contro i partigiani, la diga di Cancano che era minata e già era stato dato ordine alla popolazione di tenersi pronta. Le sirene avrebbero dato l’allarme allo scoppio della diga. A quel punto la popolazione  doveva scappare risalendo il proprio versante e possibilmente fornita di viveri per i primi giorni.

Io come riferito nel precedente intervento, mi trovavo a fare da bambinaia in una casetta di là dell’Adda, poco sotto l’Albergo Stelvio, dove c’era anche una Osteria.. Proprietari, la famiglia Divitini il cui padre, (e ne approfitto per ricordarlo, a mio avviso meriterebbe un monumento in quanto, essendo allora  il conduttore del treno sulla linea Tirano-Sondrio, ogni mattina che usciva di casa, la famiglia viveva quella partenza come se andasse al fronte e lo supplicavano di non andare, ma lui, nonostante il pericolo evidente, ci andava comunque).

 

Nella casetta ci viveva la famiglia al pian terreno e al secondo piano e al primo uno dei figli sposato, con  la moglie e due bambini ai quali facevo da bambinaia.

Anche quella sera (non preciso la data, ma comunque in quegli ultimi giorni di guerra),  dopo cena, come al solito, i componenti si ritrovavano insieme a fare quattro chiacchiere, prima di andare a dormire.. Io veramente non avevo una camera mia ma mi improvvisavano un letto nel divano del salotto di famiglia.. Potevano essere le nove, ma non di più. A un certo punto si sentì l’ormai famigliare rumore del piccolo aereo che tutti conoscevamo, quello di Pippo. Infatti gli aerei  di transito diretti a bombardare le città erano sempre più di uno e poi avevano un rumore particolare, mentre l’aviogetto di Pippo volava basso quasi a rasentare i tetti. A quel punto, però, non era già più un innocuo passeggero sui nostri cieli, ma incominciava a fare paura. Infatti la mamma dei bambini, a quel rumore si mise le mani sui capelli e sentendo che era diretto in  Alta Valle stava dicendo: “Adesso va a far saltare la diga….” ma non ha fatto in tempo a finire la frase, l’aereo ha fatto una virata e si è sentito lo schianto, come fosse sulla nostra testa.

A quel punto tutti rimanemmo lì come pietrificati. Del resto a Tirano non c’erano rifugi. Fossimo stati a Milano, ma a  Tirano tutto ci si poteva aspettare tranne un bombardamento. I giovani si guardarono subito attorno, dalle finestre e sulla strada e la prima voce che corse era che la bomba era caduta sulla Casa – garage Perego.

A quel punto io mi sentii doppiamente ferita in quanto in quella casa avevo la sorella di due anni più grande di me, al servizio della famiglia Perego, a quel tempo la famiglia abitava la parte centrale.

A quel punto la madre però osò uscire per andare a vedere, io nemmeno ci provai, tenuto conto che ero a servizio e allora non era come oggi che uno fa le sue ore e poi è libero. A quei tempi dovevi stare lì giorno e notte, tanto più trattandosi di una ragazza, così mi tenni l’incubo di non sapere se mia sorella era viva o morta. E da sola, quando gli altri, in casa, erano con qualcuno. Fu quindi una lunga notte..

Solo il giorno appresso seppi che era viva e nessuno della famiglia era rimasto coinvolto.

 

Vale però la pena raccontare l’avventura della sorella allora sedicenne.

Quella sera, forse verso le nove, finito il servizio  si trovava nei garage. Aveva il permesso di usare la doccia degli autisti dopo la chiusura. Era proprio dentro la doccia quando avvenne lo schianto. Da immaginare lo spavento. Uscita fuori si trovò avvolta in una nube nera, infatti la bomba che pareva destinata a colpire un camion carico di munizione, dei tedeschi, destinato all’Alta Valle, aveva invece centrato il mucchio di carbone. Da immaginarsi come si trovò la ragazza.

Certo da rifare la doccia, prima di risalire negli appartamenti della famiglia.

Quindi, anche da questa testimonianza diretta, non ci sono stati feriti. Nel tempo si parlò del ferimento di una donna, ma potrebbe esser stato causato da una scheggia, a qualche confinante.

Per il resto la vita continuò come prima, in attesa di nuovi eventi che sarebbero stati abbastanza burrascosi, ma, come si sa, sfociarono nella pace, quella che festeggiamo ancora ai nostri giorni il 25 di aprile.

Luisa Moraschinelli


Autore dal
11/11/2010

26/04/2011, 14:16
Ricordi di Guerra

Suggestivo e ricco di spunti il libro RICORDI DI GUERRA, della scrittrice Luisa Moraschinelli.

Luisa Moraschinelli


Autore dal
11/11/2010