A TEGLIO un agriturismo vero! Rara avis
A TEGLIO un agriturismo vero! Rara avis

È quasi commuovente trovare un agriturismo dove quasi tutto quello che si mangia e si beve è prodotto in azienda, se poi i pizzoccheri e gli sciatt sono stati preparati con grano saraceno coltivato in azienda...

 

di Michele Corti

 

L’agriturismo La Piana di Teglio (So) incarna l’ideale agrituristico più autentico. Pretendere che tutti i prodotti siano aziendali come qui è impossibile, ma perché non distinguere tra queste realtà e i tanti finti agriturismi? Perché non riconoscere le Trattorie rurali come forma differenziata di ristorazione in ambito rurale senza costringere degli operatori in buona fede (non parliamo degli speculatori) a cammuffarsi da azienda agricola?

Di agriturismo qui su Ruralpini non ho quasi mai parlato. Strano potrebbe dire qualcuno. L’agriturismo è una “istituzione” nata per salvaguardare i valori della ruralità, il suo patrimonio materiale e immateriale, per favorire un’agricoltura multifunzionale che trova occasioni di reddito nella dimensione dello sviluppo rurale sfuggendo alle trappole dell’agroindustria. E allora perché qui non se ne parla? Perché, purtroppo, il tema non può che suscitare in me (ma so di non essere il solo) un senso di amarezza tipico delle “occasioni mancate”.

 

Agriturismi “farlocchi” e conflittualità

 

La presenza di agriturismi farlocchi è motivo di conflittualità. È comprensibile che risptoratori e albergatori che operano in ben altro regime fiscale abbiamo il “dente avvelenato” contro agriturismi che di agri hanno ben poco (magari il classico filare di “piccoli frutti” che fa da foglia di fico) ma che di turismo molto. Farsi “rubare” matrimoni, battesimi, prime comunioni e altre occasioni da comitiva da chi è in un altro regime fiscale non può far piacere. Di qui sospetti, dispetti e risentimenti che finiscono per colpire anche i pochi agriturismi autentici. “Ci vengono a contare quante macchine abbiamo sul piazzale”, “Ci hanno fatto la tirata e sono venuti i Nas”. Sono lamentele comuni da parte degli agriturismi che si sentono oggetto dell’ostilità di ristoratori e albergatori. Una brutta faccenda perché il turismo, specie quello rurale, ha bisogno di coesione, di coopreaizone tra agricoltori, commercianti, operatori turistici. Non di “veleni”. Le possibilità di collaborazione sarebbero tante...

 

Soluzioni?

 

Oltre a creare incomprensioni e ruggini tra mondo agricolo e mondo del commercio e del turismo l’agriturismo farlocco crea anche tensioni all’interno del mondo agricolo. Non sono pochi gli agricoli che percepiscono l’agriturismo, almeno quello esercitato da chi si è improvvisato agricolo solo per poter aprire una trattoria, come una usurpazione, come qualcosa che oltretutto priva della possibilità di “integrare il reddito” e valorizzare i propri prodotti aziende che operano in contesti “saturi” dove l’offerta agrituristica è costituita dai farlocchi. A parer mio c’è anche un altro danno collaterale ancora più grave: molti agricoli vedendo gli sviluppi distorti dell’agriturismo sono indotti a credere che esso non rappresenti una reale opportunità e si convincono che la strada del produttivismo rimane quella giusta (“quelli lì fanno finta di fare agricoltura, noi si che produciamo in quantità siamo i veri agricoli”). Ma come si potrebbero dissipare quelle tensioni, queste contraddizioni che si colgono palpabili appena si parla di agriturismo? A mio modesto parere una soluzione ci sarebbe ma dovrebbero essere consenzienti le organizzazioni agricole e lo stato gabelliere. Le organizzazioni agricole non ci tengono mai a separare la gramigna dal loglio perché per loro tutti sono “clienti”. Se poi hanno un buon fatturato e i grossi volumi di premi Pac sono clienti ancora migliori. Non gli interessa più (se mai gli ha interessato) di esercitare un’azione politica di tutela degli interessi generali e strategici della categoria. Per le organizzazioni tutti hanno ragione. Ha ragione chi vuole gli Ogm e chi non li vuole (in questo si differenzia la Coldiretti ma è forse l’unico tema sul quale tenga una posizione coerente). Ha ragione chi vuole impiantAre una centrale elettrica a biogas da 1MW nella propria azienda (poverini, devono vivere ... come se per “vivere” è necessario incassare un milione di euro puliti all’anno!) ma ha ragione anche chi protesta contro il biogas perché paga di più d’affitto dei terreni causa la concorrenza drogata della speculazione biogasista. Mai le organizzazioni ammetterebbero che c’è agriturismo e agriturismo e che bisognerebbe premiare chi opera correttamente e nell’autentico spirito agrituristico. Ma quale sarebbe la soluzione? Riconoscere le Trattorie (o Osterie) di campagna (o rurali o di montagna) e consentire loro di operare in un regime fiscale semplificato e favorevole (forfettario o con altre soluzioni) a precise condizioni:

 

Utilizzo per il 50% di prodotti agricoli locali (che significa nel raggio di alcuni comuni in funzione delle realtà locali);

Limitazione del numero dei coperti (niente comitive);

Localizzazione in aperta campagna (escluse strade di grande traffico) o nel contesto di nuclei rurali e in ogni caso nell’ambito di comuni o frazioni di comune dove non esistono ristoranti, trattorie, pizzerie, osterie ecc.;

Apertura anche nelle stagioni di “morta” ai fini di offrire un servizio alla popolazione residente;

Costo dei menù contenuti entro massimali da definirsi a livello locale;

Priorità alle domande di autorizzaizione che prevedano la destinazione all’attività di fabbricati rurali storici e comunque utilizzo di fabbricati preesisteti da almeno tot anni.

Chi desidera aprire una trattoria in un contesto rurale e non è mosso da fini speculativi non sarebbe più costretto a fingersi agricolo e a creare un agriturismo farlocco. Le limitazioni del volume d’affari e la clausola dell’assenza di altri locali in esercizio dovrebbe prevenire fenomeni di concorrenza sleale. Si dovrebbe concedere il cambio di status a Trattoria rurale sia a esercizi pubblici già esistenti che ad agriturismi così come ad aziende agricole che non dispongono dei requisiti per l’attività agrituristica (si tratterebbe però di attività non connesse).

 


Data: 15/05/2012
 
15/05/2012, 12:20
Paolone...

... e un bel piatto di pizzoccheri!


Cristina Culanti


Autore dal
27/10/2021

15/05/2012, 11:58
... veniamo a Teglio

 

Fatte queste premesse- occupiamoci di questo caso- raro, di questo agriturismo valtellinese dove oltre il 70% del valore di cibi e bevande somministrate alla clientela è di origine aziendale. Qualcosa di eccezionale tenendo anche conto che la Legge della Regione Lombardia sull’agriturismo prevede che si debba raggiungere il 30% di prodotto aziendale. Come fa l’agriturismo La Piana di Teglio ad avere così tanti prodotti propri? Il segreto è nella natura policolturale e poliallevatoriale dell’azienda che- ha mantenutole caratteristiche dell’azienda famigliare- di montagna.- Come in- passato l’azienda- sfrutta tutta o quasi l’escursione altimetrica -del versante. Si parte. dai 600m dervigneti della località Valgella (dove si ottiene l’omonimo vino, uno dei cru del Valtellina superiore docg) per arrivare agli 800m della sede dell’azienda e quindi risalireai 900 m dei campi (patate, grano saraceno), ai 1.050 m della stalla, ai 1.200 dell’agriturismo (ristorazione e tre-camere) ai 1.800 dei pascoli di Prato Valentino frequentati dal gregge aziendale.

 

La gestione zootecnica è affidata a Paolo (Paolone) che vediamo nella foto sopra nella stalla con le sue OB (per sapere cosa sono le OB vedi l’articolo di qualche giorno fa qui su Ruralpini). Vi sono una ventina di capi di razza Bruna (in conversione OB) che in estate - con Paolo - vanno in alpeggio a Livigno. Paolo preferirebbe tenere la mandria sui pascoli di casa ma il grosso degli alpeggi di Teglio sono sul versante orobico e sono utilizzati da altri allevatori. Sulla sponda retica Teglio non ha grandi estensioni di pascoli. Per di più l’edificazione di Prato Valentino (piccola realtà sciistica) ha ridotto le possibilità di pascolo. Il gregge di pecore da carne (un centinaio di capi) utilizza ugualmente i “pascoli di casa” ma non senza problemi. L’allevatore racconta di come è stato chiamato una volta da turisti furibondi perché le pecore per mettersi all’ombra si erano collocate sulla loro terrazza e avevano “orrendamente sporcato” (tanto che per calmarli sono dovuti andare su a pulire). Ai turisti le pecore piacciono da lontano verrebbe da dire quando fanno tanto “bucolico”. Finché sono “paesaggio”. Sotto vediamo alcune delle pecore del gregge ricoverate nella vecchia stalla delle mucche. Solo qualle che hanno partorito da poco, le altre erano al pascolo sotto la pioggia.

 

Nell’agriturismo si consumano carni bovine, ovine e suine fresche e lavorate di esclusiva origine aziendale. Si consumano anche formaggi prodotti da Paolo. Qui il formaggio tradizionale è un semigrasso che viene curiosamente chiamato “Feta”. Una denominazione che non ha molte chances di accedere alla Dop per evidenti ragioni ma che a Teglio, chi è attento alla salvaguardia della cultura agroalimentare locale, cerca di salvaguardare e di non confondere con il Casera, che è dop, ma che è una dop frutto della standardizzazione delle varie produzioni invernali locali (Magnocca, Matüsc, Scimüda ecc. ecc.).

 

La ricetta dei pizzoccheri dell’Accademia del Pizzocchero di Teglio, che punta a codificare la preparazione dei pizzoccheri in ambito provinciale ma anche oltre (ci sono locali valtellinesi aderenti all’Accademia anche a Bergamo e Roma), prescrive l’uso del Casera Dop. Alla Piana, inceve, si usa la Feta aziendale. Si usa anche il burro aziendale. Tutto ciò è ammirevole. C’è da commuoversi alle lacrime quando si scopre che anche tutto il resto è aziendale, non solo gli ortaggi e le patate ma anche la farina di grano saraceno. Qui entra in scena l’altro fratello altrettanto ben piantato di Paolo che si occupa delle coltivazioni. 

 

C’è da commuoversi alle lacrime quando si scopre che anche tutto il resto è aziendale, non solo gli ortaggi e le patate ma anche la farina di grano saraceno. Qui entra in scena l’altro fratello Fanchi: Andrea, anch’egli ben piantato, che si occupa delle coltivazioni. Sotto lo vediamo con legittimo orgoglio e compiacimento osservare un mio commensale che si serve dal piatto di portata. Non è da tutti poter dire che quei pizzoccheri sono “tuoi” in tutti i sensi: dalla semina alla cottura da parte della mamma e della sorella Emanuela. E quanta storia dietro quella farina...

 

Come si può osservare dalle foto il pizzocchero è molto scuro. Qui, però, ci sarebbe da fare una disgressione perché il pizzocchero non si chiama “pizzocchero” ma “Tajadin” (ovvero... tagliatella). Tanto è vero che nella cucina di qui (peccato non averla potuta provare) c’è la zuppa di tajadin, un piatto in brodo. I pizzoccheri sono quelli cucinati e conditi serviti nel piatto. Tajadin scuri dicevamo. Anche i pizzoccheri secchi industriali, potrebbe osservare qualcuno, cosa c’è di notevole e apprezzabile in quel colore carico? , La realtà è che i pizzoccheri secchi industriali sono finti. Non solo sono finti nel nome (visto che la tradizione denomina pizocchero il piatto e non la preparazione pastaia) ma finti perché fatti DI sfarinati di grano duro canadese e CON farina molto ricca di PULA di grano saraceno. È la pula che conferisce il colore scuro e nel pizzocchero finto la si usa per “fare rustico” per conferire un colore che il grano duro non possiede di certo.

 

Nel caso della Piana la farina è scura perché macinata in modo tradizionale nel mulino a pietra (oggi si va a Grosotto ma si sta riattrezzando anche un vecchio mulino a pietra ad acqua in paese). La differenza tra questa farina e quella più “sbiancata” (ovvero macinata più fine e separata da una parte della pula) la si vede maggiormente negli sciatt. Gli sciatt sono una forma accattivante (ma recente) della frittella tradizionale di farina integrale di grano saraceno. La pastella è fritta nell’olio (nelle famiglie si usa ancora oggi lo strutto) con un cubetto di formaggio (per il tipo di formaggio vale quanto sopra osservato); ne deriva per rigonfiamento sotto l’effetto del calore della frittura un “bignè” (si mangia in un solo boccone) con delle “appendici” che l’immaginazione di qualcuno ha assimilato a delle zampette di rospo (sciatt in lombardo). Di qui il nome. In realtà le frittelle tradizionali erano più grosse e appiattite (simili ai chisciöi di Tirano, località non distante). Gli sciatt che ho avuto la fortuna di provare a La Piana sono quelli preparati con la farina macinata “all’antica”, naturalmente ricca di pula e quindi scura. “Li facciamo così solo per noi e qualche volta per chi li conosce, chi non li conosce ce li manda indietro perché dice che sono “bruciati” non conoscendo la farina”. I guai della diseducazione del consumatore che condizionato dall’industria e dalla Gdo disdegna la carne frollata al punto giusto (“puzza”), disdegna la frutta matura al punto giusto (“è marcia”). Non vuole ciò che è più nutriente, sugoso, gustoso ma quello cui è stato abituato dal sistema alimentare. Gli sciatt “bruciati” si sono rivelati i migliori mai assaporati: giusta croccantezza, spessore e consistenza dell’involucro, gusto pieno del saraceno. Altro che certi “visi pallidi” magari anche flosci...

 

La Piana è un esempio di vera gestione famigliare, c’è chi alleva, coltiva, cucina ma c’è grande connessione tra tutti e tutto. Ognuno ci mette il suo impegno e le proprie competenze ma il fine è uno solo. Sono loro stessi a illustrarcelo, a spiegarci qual’è lo spirito che anima tutta l’attività dell’azienda,  il vero “segreto”. “Abbiamo continuato a produrre tutto quallo che un tempo si produceva per noi per il consumo famigliare, non abbiamo voluto ingrandirci... oggi questo consumo famigliare lo abbiamo esteso alla gente che viene qui a mangiare, ma la sostanza non è cambiata”. Un “autoconsumo esteso” o se volete una filiera cortissima è la chiave di questo agriturismo. L’invito è a venire a provare direttamente. Augurandovi di godere di una bella giornata di sole (non come quella nebbiosa in cui sono capitato io) magari mangiando all’aperto sulla terrazza (sotto) e contemplando le Orobie di fronte.

 

Cristina Culanti


Autore dal
27/10/2021