Una valigia piena di sogni in partenza da APRICA
Una valigia piena di sogni in partenza da APRICA

Una storia del passato, quando per vivere valtellinesi e valchiavennaschi erano costretti a partire in cerca di lavoro. Una storia di cuore, di speranze, di addii e di  ritorni… “gli svizzeri che a passo spedito attraversano la stazione si diranno: Di nuovo un italiano che arriva, portando una valigia legata con lo spago”….

 

di Luciano Moraschinelli 

Dopo la morte di mia madre nel marzo 1956, per le mie sorelle che si trovano in Svizzera per lavoro, si pone un problema. Che fare di un sedicenne che si trova solo al paese natio con il vecchio padre? Un avvenimento imprevisto accelera la decisione.

Una sorella già madre di un bambino è di nuovo incinta. La Polizia degli stranieri la convoca assieme al marito e comunica loro che, non essendo in grado di mantenere due figli con una sola paga, devono lasciare la Svizzera. Il permesso di soggiorno non è rinnovato.

Per loro è una tragedia, a me invece sembra una buona notizia; avrò compagnia e, la cosa per me più importante e ambita, riceverò di sicuro della cioccolata svizzera.

La piccola famiglia è benvenuta, il cognato trova lavoro nei cantieri della Falck e nel frattempo arriva il secondo figlio.

Durante questo periodo, delle lettere fanno la spola tra Berna e l’Aprica. Che il tema principale sia io e il mio avvenire, lo scoprirò più tardi. A nessuno passa per la mente che ciò possa interessarmi.

Un giorno mi dicono di mettere il mio maglioncino migliore, la scelta non è molto vasta, e di andare a Sampietro dal Güsta, per fare delle foto formato passaporto. Solo in questo momento vengo a sapere che la famiglia ha deciso di inviarmi a Berna per cercare lavoro. Tutto eccitato per questa notizia, trovo il Güsta nel suo Bazar e alla mia richiesta, mi dice tra il serio e il faceto: “Vuoi andare a conquistare la Svizzera e diventare milionario?”. Io devo averlo guardato in modo strano, perché scoppia in una risata.

Mi conduce nel retrobottega all’aperto e mi piazza davanti a un muro su uno sgabello traballante. Mentre prepara la macchina fotografica, m’impone di non muovermi. È un problema difficile da risolvere; fissare l’obiettivo, restare rigido e tenere a bada lo sgabello recalcitrante. In qualche modo ci riesco e il Güsta è soddisfatto.

Seduto sullo scalino davanti al negozio, aspetto che le foto siano sviluppate. Il Güsta mi chiama, me le porge  accompagnandole con un paterno augurio. Camminando verso casa, do ogni tanto un’occhiata alle foto, come per abituarmi a questa nuova faccia.

Da quando ho la certezza di andare in Svizzera, vivo come in una nebbia, non penso ad altro. Ricevo un passaporto turistico, il permesso di lavoro mi verrà dato senza problemi burocratici. In quei tempi c’era mancanza di operai, non di posti di lavoro. La data di partenza è fissata per il 26 dicembre, giorno di santo Stefano.

 


Data: 25/09/2012
 
25/09/2012, 09:20
Il passaporto รจ pronto...

Preparativi

(di Luciano Moraschinelli) 

Il passaporto è pronto, il biglietto pure, mancano solo il mio guardaroba e la valigia.

I miei vestiti sono ridotti al lumicino, eliminando in questo modo la difficoltà della scelta. Il pezzo forte del mio abbigliamento è un’impermeabile che avrà in seguito un ruolo importante.

Il problema maggiore da risolvere è quello della valigia; in solaio si trovano solo antiche valigie sgangherate che non sopporterebbero nemmeno il viaggio fino alla corriera. Resta solo una valigia usata dalla sorella e dal cognato di recente.

Chiunque ha fatto viaggi sa, che riempire una valigia, assomigli alla quadratura del cerchio, quasi impossibile. Nel mio caso c’è un aggravante.

Le mie cose, come accennato, riempiono solo un angolino, il problema che si pone è subito spiegato.

Quando si va all’estero, è uso accomiatarsi dai parenti facendo attenzione di non trascurare nessuno in modo da evitare rimproveri tipo “ da lui o da lei sei andato ma da noi no”.

Da tutti si riceve un caffè, un bicchiere di vino o una buona parola di augurio e di saluti per i parenti all’estero. Alcuni, la maggior parte, danno un salamino o una fila di luganighe, la cui lunghezza dipende da diversi fattori: parentela, simpatia o possibilità del donatore. Tutto questo ben di Dio, deve essere stipato nella valigia e, ancora più importante, deve passare la dogana.

L’ultima visita d’addio è riservata per la zia Giuanina, una donna di gran cuore, la mia preferita. Assieme al salame per le mie sorelle, mi dà una grande fila di luganighe per suo figlio che abita pure a Berna. Quando arrivo a casa con tutta questa merce, papà, cognato e sorella mi dicono: “ La valigia è piena, dove la mettiamo tutta questa roba?”. A zia Giuanina non si può dire no, dobbiamo quindi trovare una soluzione.

La sorella ha un’idea geniale: l’impermeabile. Dotato di due tasche esterne e di due interne molto capienti, si presta in modo ideale. Queste sono riempite, io indosso l’impermeabile e ricevo l’ordine di andare in cucina avanti e indietro come un indossatore. La sorella mi consiglia di non abbottonarlo in modo che, essendo per la mia età largo di spalle, non si notino i rigonfiamenti. Ci felicitiamo per la buona idea che ci aiuta a risolvere il problema. Resta ancora una fila di luganighe da piazzare. Il cognato ricorre a un trucco antico: io indosso un maglione il quale, in previsione di crescita da parte mia, è di due numeri più grande. Le luganighe mi saranno legate con uno spago attorno alla vita e quindi mimetizzate dalle pieghe del maglione troppo grande. La contentezza causata da queste buone idee dura poco perché il prossimo problema si presenta subito: come chiudere la valigia?

Il primo tentativo mostra la mancanza di alcuni centimetri. Mi si ordina di sedere sul coperchio e questo avvicina i due lati fin quasi alle serrature. Queste però non hanno un’aria affidabile ed è quasi sicuro che sotto pressione saltino. Una nuova ispezione del solaio porta a una scoperta interessante, una cinghia di cuoio della giusta lunghezza. Siamo così soddisfatti, che non notiamo le crepe nel cuoio e proprio queste ci causeranno una bella sorpresa.

Sedendoci a vicenda sulla valigia, riusciamo a chiudere le serrature e, prima che saltino, il cognato riesce ad avvolgere la cinghia alla quale però manca il proverbiale centimetro.

Con un grande sforzo, riesce a fissarla nell’ultimo buco disponibile.  La valigia sembra gonfiata come un pallone, si ha l’impressione che scoppi da un momento all’altro. Aprire la cinghia è impossibile perché il triangolino che resta dopo il buco, ha solo spazio per due dita, rendendo impossibile l’uso della forza. Papà dice: “A Berna potete tagliarla senza problemi, tanto è da buttar via”. Se sapesse!

 Partenza e viaggio con ostacoli

Del Natale non ho nessun ricordo, probabilmente ho seguito le funzioni senza rendermene conto, immerso come sono nell’attesa del viaggio.

Il 26 dicembre del 1956 sono accompagnato alla corriera da papà e sorella. Il cognato porta la valigia e mi scorta fino alla frontiera. Mi trovo come in una nebbia: il tempo di salutare la sorella e il papà e di ascoltare alcuni consigli senza comprenderli. Questi consigli riaffioreranno più tardi e saranno di grande aiuto.

Che ne sa un sedicenne, che pensa solo al suo primo grande viaggio, dei sentimenti di un padre che si vede costretto a mandare il figlio più giovane in un mondo pieno di pericoli?

Con un ultimo sguardo abbraccio la contrada ancora avvolta da una bruma invernale e le cime della Val Belviso. Le curve tanto odiate vengono sopportate ascoltando i segnali preoccupanti che provengono dal fondo dello stomaco. Dopo le gallerie, al Piano della Tresenda, mi sembra come il solito di rinascere.

Siccome i doganieri svizzeri della stazione di Tirano hanno fama di essere pignoli, il cognato decide di tentare la fortuna alla dogana stradale di Campocologno. Un piccolo autobus ci conduce da Tirano fino alla dogana italiana. Questa è passata senza problemi e ci avviamo a piedi verso quella svizzera. Sento il cuore che mi batte in gola; la mia prima dogana e in più carico di merce da dichiarare, mi mette in apprensione. Il cognato m’impone di non aprir bocca e di non fare una faccia da funerale.

Un doganiere dalla faccia seria saluta correttamente, controlla i passaporti e fa la domanda fatidica e temuta da tutti: “Avete merce da dichiarare?”. A mia sorpresa sento il cognato partire con una lunga dichiarazione: “Abbiamo solo un paio di luganighe per i parenti, insomma poche cose” e via dicendo.

Il doganiere non si fa ingannare dal fiume di parole e ci gela dicendo: “Mettete la valigia su questo tavolo e apritela”. È chiaro come il sole che abbiamo merce da dichiarare e dicendo di no, ci siamo manovrati in una situazione precaria.

La valigia è posata sul tavolo di metallo e il cognato cerca di aprire la cinghia. Siccome questa è tesa allo spasimo e per aprirla resta solo il piccolo triangolo dopo l’ultimo buco, ogni tentativo di aprirla solo con pollice e indice, è destinato a fallire. Il cognato prova sbuffando, senza risultato. Il doganiere, sospettando una manovra da parte nostra, prova a sua volta ma fallisce anche lui. Concentrato sulla valigia, non ha badato un solo momento al mio impermeabile carico di salumi.

Tutti e tre stiamo attorno al tavolo e fissiamo la valigia come se volessimo esorcizzarla. Sembriamo tre medici a consulto attorno al letto di un malato.

Io sono terrorizzato. Nella mia fantasia vedo il doganiere prendere un coltello, tagliare la cinghia, il sequestro della merce, una multa e probabilmente la revoca del permesso di entrata in Svizzera. Sono ricondotto alla realtà dal doganiere il quale, con un sorriso dice: “Per oggi potete andare”. Forse ha compassione per il ragazzo che lo guarda tremante e che deve andare in un mondo troppo grande per lui. Chissà?

Ringraziamo gentilmente e usciamo senza mostrare troppo il nostro sollievo e ci avviamo verso la stazione di Campocologno.

La strada che dalla dogana porta al paese, ha due curve. Dopo la prima svolta, fuori vista della dogana, sentiamo un colpo secco, come uno sparo; la cinghia della valigia si è rotta!

Il tutto succede simultaneamente: le serrature saltano e il contenuto della valigia si riversa sulla strada. Dopo uno sguardo verso la dogana che è fuori vista, rincorro la bottiglia di Grappa la quale, tintinnando allegramente, sta avviandosi verso la cunetta e la prendo al volo. La stessa cosa faccio con un piccolo formaggio e qualche salame. Mio cognato è pure lui indaffarato a inseguire i fuggitivi. In un baleno riusciamo a raccogliere tutto, favoriti anche dalla mancanza di traffico. Più tardi scopro dalle tracce che, durante la mia caccia, ho pulito con i lembi svolazzanti dell’impermeabile un bel pezzo di asfalto svizzero.

Posiamo la valigia sul parapetto e la riempiamo a dovere, seguiti dallo sguardo incuriosito di qualche passante. Abbiamo il solito problema: le serrature non tengono e la cinghia è rotta. Che cosa fare? Il cognato m’intima di non muovermi, va alle prime case vicine e torna poco dopo, armato di un lungo spago dal diametro rassicurante. Leghiamo la valigia ad arte e questa legatura terrà fino a Berna.

 Arrivo

Il viaggio è per me un susseguirsi d’impressioni nuove: il trenino del Bernina, montagne altissime, ghiacciai, laghi piccoli, grandi, grandissimi, paesi diversi dai nostri, una città grande, Coira e una grandissima, Zurigo. Io cerco di assimilare tutti i particolari, riuscendone solo in parte. Solo i più interessanti s’imprimeranno nella mente. Le uniche parole di lingua tedesca che ho imparato, bastano per chiedere al personale delle ferrovie: “Chur, Zürich, Bern?”. Grazie a questo sono pilotato da persone gentili attraverso la Svizzera fino a Berna.

Tra Coira e Zurigo mi capita ciò che di solito si vive solo in un incubo sognando.

Stanco, mi sono addormentato appoggiato all’impermeabile appeso al gancio, mentre la valigia è sotto il sedile. Il bisogno di andare in bagno mi sveglia. Mi alzo e tutto insonnolito, esco dal reparto e vado alla toilette. Esco, sempre mezzo dormente e ritorno nello scompartimento. Di colpo sono sveglio; non vedo più l’impermeabile appeso al gancio e la valigia sotto il sedile è sparita. Sicuramente rubati. Sono come sotto shock. M’immagino la reazione delle sorelle quando arrivo a mani vuote. Mi accorgo di attirare l’attenzione e le facce dei vicini che mi guardano con curiosità discreta, mi sembrano sconosciute. A un tratto mi viene un’idea: e se uscendo dalla toilette nel mio sonno fossi andato nella direzione sbagliata? Cercando di non dare nell’occhio, ritorno sui miei passi, entro nell’altro vagone e, che cosa vedo?: il mio impermeabile e la valigia che mi attendono pazienti. Sono così contento che per poco non li abbraccio. Da quel momento non li abbandono un istante.

A Berna sono atteso da un cognato che mi solleva dal peso della valigia.

Il mio ingresso non è trionfale. Probabilmente, con la valigia legata come un salame, i miei semplici vestiti e con l’impermeabile sporco e svolazzante, non devo avere un’aria molto elegante. Alcuni degli svizzeri che a passo spedito attraversano la stazione si diranno: “Di nuovo un italiano che arriva, portando una valigia legata con lo spago”.

 

 

Cristina Culanti


Autore dal
27/10/2021